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Come detto, la risposta che Socrate rivolge a Cebete è particolarmente complessa ed investe la concezione platonica di causalità. Possiamo sostenere che l’argomentazione socratica vada costituendosi di due momenti, inevitabilmente legati l’uno all’altro.
Innanzitutto, Socrate s’interroga circa il concetto di “causa”. Ebbene, la legalità causale in questione deve essere colta nella sua accezione classica. In sintesi: A può dirsi causa di B se è ciò che permette a B di essere B o se è ciò che permette a B di divenire B. Possiamo ampliare tale concezione con due interessanti riflessioni che lo stesso Socrate pone subito in essere. In primis, il filosofo sostiene come sia necessario ragionare attorno alla componente prettamente “fisica” di una causa. Socrate, infatti, sviluppa una osservazione particolarmente illuminante. Afferma come dinanzi ad una domanda Socrate, perché ti trovi in carcere? la risposta più “logica” possa essere Mi trovo in carcere perché il mio corpo si trova in questo preciso luogo. Il filosofo ammette però che, qualora lo desiderasse, il suo corpo potrebbe anche mobilitarsi per mutare la situazione presente – ad esempio, escogitando una fuga o una evasione -. Il trovarsi in carcere non può avere come causa il mio corpo si trova in carcere, il che significa che quanto di fisico vada caratterizzando una causa A debba essere sempre oggetto di un’attenta valutazione. La “fisicità” di una causa, quindi, non è ciò che ontologicamente definisce la stessa quanto, piuttosto, quel qualcosa che può aiutare la medesima ad esser tale. In secundis, Socrate integra la legalità causale con le idee platoniche. Questo ci permette di cogliere la prima “modifica” apportata dal filosofo alla concezione classica di “causa”: A può dirsi causa di B se è quel qualcosa che permette a B di imitare e partecipare ad A. Viene, dunque, ribadito il fatto che le oggettualità eidetiche siano la causa efficiente dei sensibili. Queste due osservazioni permettono a Socrate una “evoluzione” intellettiva come la seguente:
Perché l’uomo diventa grande? → Perché mangia e cresce.
↓
Perché l’uomo diventa grande? → Perché partecipa all’idea di grandezza.
Fatte queste due osservazioni, Socrate inizia a riflettere circa la definizione di “causa”. Ed ancora una volta prende in considerazione due esempi:
- se considerassi assieme due donne distinte e diverse, noterei come il numero due venga causato dall’unione;
- se spezzassi in due parti un rametto di legno, noterei come il numero due venga causato dalla separazione.
Socrate afferma che un qualsiasi effetto B – il numero due – non possa originarsi da due cause diverse – la unione e la separazione di cui sopra –. Dopodiché, prosegue con le sue osservazioni:
Posso dire che quest’uomo è grande a causa della sua testa?
No. Perché il parametro “testa” potrebbe essere lo stesso che rende un altro uomo piccolo. Quindi, una causa A non può produrre effetti diversi. Infine, riflette nuovamente sull’esempio di poc’anzi:
Posso dire che quest’uomo è grande perché ha una testa grande?
Sì. Il che significa che una causa A, per essere tale, deve fare in modo che l’effetto B vada costituendosi di quella stessa proprietà che la medesima causa gli trasmette. Ebbene, queste tre osservazioni formano le tre premesse fondamentali circa la definizione di “causa”. Ma la questione, da un punto di vista filosofico, va complicandosi proprio adesso, nel momento cioè in cui Socrate introduce il concetto di “proprietà”. Occorre procedere, quindi, con particolare attenzione. Soffermiamoci proprio su questo termine, “proprietà”.
Abbiamo già avuto modo di coglierlo in riferimento all’argomento ciclico ma ciò che, per l’appunto, dobbiamo comprendere adesso è che niente di quanto discusso in seno alla causalità abbia a che fare con quanto trattato in tema di “contrari”. Socrate sofferma la propria attenzione su alcuni particolari predicazioni. Ad esempio: Io sono più alto di Cebete ma sono più basso di Simmia. L’argomento ciclico, però, ci ha fatto comprendere come una particolarità non possa esperire entrambe le proprietà formanti una coppia di contrari… quindi come è possibile “usufruire” dell’esser alto nei riguardi di uno e dell’esser basso nei riguardi di un altro? Ecco, quello che è importante comprendere è proprio questo! Socrate, infatti, sostiene come tali espressioni linguistiche non debbano essere alienate dal loro significato relazionale. Esistono proprietà necessarie che ontologicamente definiscono la particolarità – ad esempio, il fuoco non può non essere caldo -, ma esistono anche proprietà accidentali che si limitano a definire una caratteristica del sensibile. In ogni caso non si tratta di prendere in considerazione una coppia di proprietà contrarie quanto, piuttosto, di evidenziare la possibilità che in seno alla trattazione delle proprietà sia possibile giungere a formulare postulati relazionali. Scongiurata, quindi, la possibile incomprensione causata dall’argomento ciclico, Socrate approfondisce ulteriormente la questione.
Le proprietà necessarie, di per sé, proprio perché inevitabilmente rendono la particolarità ciò che è, non concepiscono il proprio contrario – motivo ulteriore che ci permette di comprendere come non stiamo ragionando in termini di coppie di proprietà contrarie -. Il fuoco, ad esempio, non può ammettere la presenza del freddo perché deve essere caldo per sua stessa natura. Ma il fatto che una proprietà necessaria non contempli l’esistenza del suo contrario non significa, afferma Socrate, che il contrario non esista e/o non sopraggiunga – ad esempio, se getto l’acqua sul fuoco ottengo il sopracitato freddo -. Quando la proprietà contraria giunge, quella precedente cede il proprio posto e perisce – nuovamente, l’esempio del fuoco è particolarmente esaustivo -. L’unica particolarità, la cui proprietà necessaria non solo non contempla la sua contraria ma, addirittura, ne impedisce la venuta, è l’anima. La proprietà necessaria dell’anima è la vita – del resto abbiamo già visto come un essere vivente possa dirsi persona vivente solo quando la sua anima è unita al corpo -, il che ci permette di affermare che l’anima non contempli la morte, dato che quest’ultima è il contrario della vita. Socrate, dunque, sulla base della definizione di “causa” di poc’anzi, sostiene che l’anima è causa della vita perché trasmette questa proprietà al corpo, rendendo quest’ultimo vivo. Resta da capire, però, perché l’anima impedisca il sopraggiungere della proprietà contraria. Questo avviene perché la stessa è eterna ed indistruttibile. Socrate – finalmente! – lo dimostra attraverso un ben preciso sillogismo. Lo stesso è del tipo se A allora B, ma A dunque B e viene spiegato nel modo seguente:
Se l’immortale è indistruttibile allora l’anima è indistruttibile, ma l’immortale è indistruttibile quindi l’anima è indistruttibile.
La prima premessa – Se l’immortale è indistruttibile allora l’anima è indistruttibile – è apodittica secondo Socrate. La seconda, invece – ma l’immortale è indistruttibile -, ci obbliga a ragionare un attimo. Possiamo esaminarla nel seguente modo: Socrate afferma che qualora l’immortale non fosse indistruttibile, non esisterebbe niente tale da ritenersi indistruttibile, ma la Vita lato sensu – qui gioca un ruolo importante la concezione mitologica della stessa… un po’ come abbiamo già visto in riferimento alle anime presenti nell’Ade – è assolutamente indistruttibile. Motivo per cui, l’immortale deve essere indistruttibile. Da qui la conclusione: quindi l’anima è indistruttibile.
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