LIMITI, FALLE E CONTRADDIZIONI DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA: LA BREXIT.


La Brexit ha letteralmente sconvolto il panorama politico europeo. E non solo. Probabilmente anche per il modo in cui si è imposta: il giorno prima vi era molto ottimismo sulla vittoria del “remain vote“. Ottimismo che, a dir la verità, continuava a rimanere ben saldo e forte anche durante le prime ore dello scrutinio. Ma il tutto per poi cadere rovinosamente con l’affermazione definitiva del leave. Con “buona pace”, soprattutto, per gli scozzesi: loro che avevano rinunciato per “amor di patria” a staccarsi dal Regno Unito per poi finire col sentirsi letteralmente traditi dall’Inghilterra che adesso, forse più che mai, davvero potrebbe rischiare di vedere passare quel referendum di scissione scozzese che porta alla mente le imprese storiche di William Wallace.

In Italia, nonostante alcune forze e leaders politici abbiano cercato – con non poca fatica – di descrivere con calma e pacatezza quanto accaduto oltremanica, la confusione ed il populismo da strada, ancora una volta, hanno immancabilmente dominato la nostra scena mediatica. E così ci siamo ritrovati con l’avere, da una parte, Saviano, che sulla base (anche) di una più che meritevole critica alla democrazia diretta ha finito col paragonare l’esito del referendum britannico al 1933 tedesco, e, dall’altra, il duo SalviniGrillo, i quali hanno subito a gran voce fatto appello per una Itexit – non sapendo o, peggio ancora, facendo finta di non sapere che ad oggi, in Italia, sono previste dal dettato costituzionale solo due tipologie di indizioni referendarie: quella “abrogativa di legge” e quella di “revisione costituzionale”. Una terza, quella “propositiva di legge”, che, praticamente, andrebbe, in parte, a sostituire i disegni di legge di iniziativa popolare, entrerà in vigore solo e soltanto col passaggio della riforma Boschi, che, guarda caso, è l’appuntamento referendario del prossimo Autunno. Ad ogni modo, referendum in seno agli “affari internazionali” non sono minimamente contemplati. Da nessuna parte. Chiusa la parentesi -. In sintesi, quindi, se da un lato si è gridato ed inveito contro la dabbenaggine dei cittadini inglesi, dall’altra ci si è lasciati andare a predicazioni ed affermazioni del tipo «è giusto che il popolo italiano possa scegliere». Vediamo di riuscire a fare un minimo di chiarezza, cercando di estraniarci da ogni forma di estremismo becero e cieco. E da ogni forma di opportunismo politico dal finalismo meramente elettorale.

Ad una lettura oggettiva e tecnicamente politica di tutta la faccenda, ritengo sia indubbio il fatto che la democrazia diretta abbia, per l’ennesima volta, mostrato tutti i suoi limiti e tutte quelle contraddizioni che, molto spesso, la viziano e mistificano. E ritengo che il fatto che questo debba essere imputato, in questa occasione, agli anglosassoni, che politicamente poco hanno da imparare e molto da “esportare” – è sufficiente, a tal riguardo, aprire e sfogliare un qualsivoglia testo di storia o di politica o di economia -, sia un monito per tutti noi. Non mi riferisco tanto alla vittoria in sé del leave. Il distacco non è stato abissale, onde a testimoniare una società letteralmente spaccata in due – anche da un punto di vista prettamente generazionale dove gli youngs hanno votato in massa a favore dell’EU, al contrario dei cittadini appartenenti, invece, alle generazioni passate -. Non voglio nemmeno stare qui a trattare circa tutte le dinamiche socio-politiche che possono aver influenzato (o meno) quella determinata scelta di voto – pare abbia molto pesato, più che l’austerity, la tematica legata ai flussi migratori -. La sconfitta della democrazia diretta – o, ad ogni modo, la sua stessa inadeguatezza circa il giudizio che pone in essere a seguito dell’espressione della volontà popolare nei riguardi di alcune tematiche macro-sociali – è stata evidenziata da due fattori.

In primis, la ricerca rilasciata, dopo l’esito della Brexit, da Google Trends può, effettivamente, lasciare molti spazi a preoccupanti riflessioni. Evidenzia – o, comunque, può evidenziare con tutti gli accorgimenti dovuti – come una grandissima fetta di cittadini inglesi sia andata a votare pur non avendo le nozioni minime in seno alle tematiche sulle quali era stata chiamata ad esprimere la propria opinione. Come secondo quesito, maggiormente “cliccato” dall’utenza d’oltremanica, compare quello del What is the EU?

Ricerca Google Trends #01

Ma sono, soprattutto, i risultati del sondaggio effettuato da Ipsos Mori – un’agenzia britannica di marketing – a lasciare sbigottiti. Stando ai risultati raccolti da questo campionamento, il cittadino medio inglese ritiene, ad esempio, che gli immigrati ricoprano circa il 15% dell’intera popolazione – per la precisione, i sostenitori del remain attribuiscono a tale fattore una percentuale del 10%, mentre coloro che hanno votato leave il 20% -, mentre all’incirca gli immigrati sono tre milioni e mezzo (siamo attorno al 5-6%). Il cittadino medio inglese ritiene che l’Inghilterra sia il paese europeo a dover sopportare le spese pubbliche più alte per la politica sovranazionale: in realtà l’Inghilterra è al quarto posto, preceduta, in ordine, da Germania, Francia ed Italia. Soltanto 6 intervistati su 10 sanno che gli europarlamentari vengono scelti a seguito di elezioni nazionali all’interno di ogni singolo Paese membro; soltanto il 5% dei cittadini inseriti nel campione ha saputo nominare almeno un proprio rappresentante europeo a Bruxelles. E così si continua – anche su argomenti, a dire il vero, maggiormente tecnici e di natura finanziaria -, tanto per dimostrare come la disinformazione e non la volontà di acculturarsi – questo resta il dramma principale, a mio modesto modo di vedere – riescano a minare il fondamento valoriale della democrazia diretta.

Resta, sempre e comunque, doveroso fare tutti gli accorgimenti del caso. Dobbiamo sempre tenere a mente che la statistica inferenziale, i sondaggi, i campionamenti et similia sono molto spesso soggetti ad errori e, soprattutto, sono influenzati da variabili e fattori dal connotato fortemente soggettivo. Tutto ciò che da essi se ne può trarre rimane certamente importante ed indicativo per definire un quadro di riferimento generale, tramite il quale poter compiere riflessioni ed indagini analitiche. Ad ogni modo, sostenere, banalmente, che gli inglesi fossero completamente disinformati e che siano andati a votare “per inerzia” è un’affermazione politica molto azzardata e poco credibile.

In secundis, la petizione, che in queste ore sta già raccogliendo più di due milioni di firme per la promulgazione di una legge nazionale che preveda e consenta la ripetizione di un referendum nel caso in cui l’esito di quest’ultimo sia stato inferiore al 60% dei voti validamente espressi, a fronte di una partecipazione alle urne non inferiore al 70% degli aventi diritto – petizione pubblicata sul sito del Parlamento britannico -, è la dimostrazione non solo di come la società anglosassone sia letteralmente spaccata in due ma, soprattutto, di come il voto di maggioranza, pur se espresso democraticamente, non produca sempre – come fosse un automatismo meccanico – benessere e/o equità sociale. Allora domando: è meglio lasciare che sia il popolo, con tutti i propri limiti e difetti, a disquisire sulle tematiche macro-sociali o è meglio che quest’ultimo si adoperi giornalmente, nel tempo, a fare in modo di avere una classe dirigente responsabile e che sappia perseguire interessi, largamente condivisi da tutta la popolazione, che non siano discriminatori verso una larga fetta della realtà cittadina?

Vorrei concludere con un’osservazione di carattere sociologico. Tanto per argomentare ancora un po’ e fornire un punto di vista che possa essere complementare a quanto detto e, magari, anche alternativo alle varie riflessioni formulate durante questi giorni.

L’uscita dall’Europa si tradurrà, quasi sicuramente, per l’Inghilterra in difficoltà economiche. Almeno nel breve-medio periodo. La presenza della moneta nazionale, ad ogni modo, già rappresenta un ottimo deterrente finanziario – ritengo che i Paesi membri, in cui è in vigore la moneta unica, abbiano un’ulteriore gatta da pelare a tal riguardo -. Ad ogni modo, l’Inghilterra rimane una Nazione capace – e la storia ce lo insegna – di resistere a delicate e particolari fasi storiche, stringendosi attorno a precisi valori ed icone nazionali. Esistono punti di riferimento (appunto) nazionali, centri di aggregazione valoriale nei confronti dei quali l’intera popolazione ha sempre rivolto la propria attenzione. Fra questi, spicca l’istituzione monarchica. L’Europa non è, ad oggi, percepita in toto in tal modo: è, per lo più, una realtà sovranazionale fondata su di una legittimazione che ancora non rispecchia un vasto consenso popolare. Inutile negarlo. Ma vorrei domandare, soprattutto agli italiani che fomentano la richiesta di direttismo politico nel “Bel Paese”: se l’Italia dovesse uscire dall’Europa, con la necessità di (ri)allestire una Banca nazionale per l’emissione della propria moneta, in un periodo come questo, di profonda crisi economica, sociale e politica, siamo davvero sicuri di poter eventualmente contare, all’interno del nostro Paese, su precise avanguardie culturali, nazionalmente riconosciute all’unanimità, verso le quali poterci stringere a chiedere conforto ed aiuto? E badate bene che anch’io sono profondamente “euroscettico”.

Vi lascio tutta una serie di articoli per approfondire ulteriormente quanto appena discusso.

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