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Prima di passare ad analizzare i tre testi più importanti dell’intera filosofia kantiana – Critica della ragion pura (1781), Critica della ragion pratica (1788) e Critica del giudizio (1790) -, vi sono altre tre critiche particolarmente rilevanti da menzionare. Sono raccolte in uno scritto del 1793 – Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi – e sono rivolte rispettivamente contro: Christian Garve (1742/1798), Thomas Hobbes (1588/1679) e Moses Mendelssohn (1729/1786).
È lo stesso Kant ad illustrare la struttura dell’elaborato; il rapporto tra teoria e prassi, infatti, si sviluppa lungo tre capitoli:
- nel primo capitolo, suddetta relazione viene descritta nei riguardi della morale lato sensu (critica a Garve);
- nel secondo, nei confronti della politica, intesa come strumento per perseguire il “bene” all’interno dei vari Stati (critica a Hobbes);
- infine, nel terzo capitolo, il rapporto tra teoria e prassi viene affrontato dal punto di vista cosmopolitico (critica a Mendelssohn).
In questo primo articolo vediamo intanto di analizzare la prima delle tre suddette critiche:
- «Sul rapporto fra teoria e prassi nella morale in generale.»: il quesito che si pone Kant verte sul comprendere se un concetto, di qualsivoglia natura o specie, possa valere sia per la teoria che per la prassi oppure se, nel caso contrario, l’una pregiudichi inevitabilmente l’altra. Il punto di partenza della trattazione investe la nozione che l’illuminista possiede riguardo al concetto di “morale”. Kant, infatti, sostiene che la morale sia «una scienza che insegna non come dobbiamo diventare felici, ma come dobbiamo diventare degni della felicità.» Ciò che è fondamentale, stando alla riflessione dell’illuminista, è che il perseguimento della propria felicità individuale non vizi né tanto meno giustifichi l’osservanza del “dovere”; dovere nei riguardi del quale ogni singolo individuo, in quanto cittadino, deve ubbidire (razionalmente). Come afferma lo stesso filosofo: «Secondo la mia teoria, unico fine del Creatore non è né la moralità dell’uomo in sé, né la sola felicità per sé, bensì il sommo bene possibile nel mondo, che consiste nell’unione e nell’accordo di entrambe.» È filosoficamente molto importante comprendere il perché della presenza concettuale di questa paradigma, il “sommo bene”. Kant sostiene che il motivo che ci porta ad ammettere la necessità di un sommo bene – inteso, per l’appunto, come “fine ultimo” -, realizzabile e perseguibile attraverso il “concorso” di ogni singolo individuo, non dipenda tanto dall’assenza di «moventi morali» – intesi cioè come “singole moralità” -, quanto piuttosto dai rapporti esterni all’interno dei quali, per merito proprio delle tante moralità tra di loro concatenate, può originarsi un vero e proprio “fine ultimo morale” – in grado di trascendere, quindi, ogni singolo suo componente -. Ogni fine, quindi, non è morale. Ad esempio, la “propria felicità”, come abbiamo appena visto, non è un fine morale. La ragion pura deve permettere lo sviluppo di intenti morali non egoistici; in tal modo è possibile giungere ad una realtà nella quale il sommo bene sia stato reso possibile anche per merito di “un individuale e personale concorso”. Il concetto è estremamente complesso e profondo: Kant afferma che una volontà non egoistica – e, perciò, finalizzata al perseguimento di intenti morali – debba essere anche in grado di “estendersi oltre l’osservanza della legge morale”, qualora sia necessario. Rispettare le leggi è fondamentale. Ma la felicità personale non può divenire la condizione legittimante e giustificante la suddetta osservanza. Al contrario. Il cittadino deve «diventare consapevole se qualche movente derivato dalla felicità non si insinui inavvertitamente nella determinazione del dovere […].» Sottolineato questo aspetto, Kant affronta la differenza – che, stando alle sue stesse argomentazioni, esiste – tra una «dottrina che insegna come dobbiamo divenire felici e quella che insegni come dobbiamo renderci degni della felicità.» Ogni cittadino deve compiere il proprio dovere in modo disinteressato, ovvero deve compiere il proprio compito di cittadino alienando da tale obbligo il perseguimento di ogni interesse personale. Soltanto in questo modo può concorrere a raggiungere e condividere con i suoi simili la felicità pura. Kant sa fin troppo bene che mai nessun uomo adempie al proprio dovere, disinteressandosi del tutto da vantaggi, gratificazioni e/o guadagni personali (e egoistici); ma è sufficiente, per conseguire la purezza del dovere, che egli stesso rinunci «ai molti motivi opposti all’idea del dovere.» Del resto, come afferma lo stesso filosofo: «[…] se soltanto quel concetto viene presentato alla volontà degli uomini come distinto dal motivo della felicità, anzi come opposto a questo, esso è di gran lunga più forte, più incisivo e di riuscita più certa che qualsiasi motivo di determinazione derivato dal suddetto principio egoistico.» Anche in questo frangente è, dunque, possibile scorgere nuovamente l’ottimismo antropologico kantiano. Tutto ciò, quindi, che nella morale si palesa essere giusto in teoria deve esserlo anche nella prassi – uomo e cittadino devono “moralmente coincidere” -.
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