TEORIA E PRASSI SECONDO KANT: PARTE TERZA.


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Prendiamo adesso in esame la critica rivolta contro Hobbes:

  • «Sul rapporto della teoria con la prassi nel diritto dello Stato.»: tra la moltitudine dei vari contratti sociali tramite i quali gli uomini riescono ad unirsi in contesti sociali organizzati, il pactum unionis civilis, ovvero l’accordo che permette l’instaurazione di una costituzione civile, è il più importante. Kant sottolinea come tutti gli accordi sociali si caratterizzino per la presenza di un fine che sia, per l’appunto, comune a tutte le parti in gioco. Il contratto per la formazione di una costituzione civile è invece una unione fine a sé stessa. Si tratta di una instaurazione possibile solo all’interno di una società profondamente civile in cui cioè vi siano leggi “coattive pubbliche” in grado di determinare la libertà del singolo e assicurare la stessa da ogni violazione e/o attentato esterno. La precisazione fornitaci da Kant è alquanto minuziosa – e, in parte, abbiamo già avuto modo di evidenziarla più volte -: il diritto si fonda sulla libertà ma non deve essere confuso con il fine ultimo verso il quale ogni uomo (egoisticamente) tende: la felicità personale. Anzi, questo fine non deve assolutamente divenire fonte di giustificazione e/o di legittimazione delle leggi di cui sopra. Il Diritto, quindi, deve essere inteso come la «limitazione della libertà di ognuno alla condizione dell’accordo di questa con la libertà di ogni altro, in quanto ciò sia possibile secondo una legge universale.» Il Diritto Pubblico, dal canto suo, è «l’insieme delle leggi esterne che rendono possibile un tale accordo onnicomprensivo.» Con il termine “coazione” Kant indica la «limitazione della libertà attraverso l’arbitrio di un altro»; la costituzione civile è, dunque, un rapporto, fondato su di una dinamica contrattualistica, tra uomini certamente liberi ma che però, al contempo, sono limitati dal rispetto di leggi coattive. La necessarietà dell’esistenza di tali leggi è richiesta tanto dalla ragione umana quanto, aprioristicamente, dall’attività legislativa.

Una società fondata su di uno stato civile si costituisce, quindi, di tre elementi:

  1. la libertà riconosciuta ad ogni suo membro in quanto “uomo”;
  2. l’eguaglianza riconosciuta tra ogni suo membro in quanto “suddito”;
  3. l’indipendenza riconosciuta ad ogni suo membro in quanto “cittadino”.

Si tratta adesso di sviluppare la nostra riflessione nei confronti di suddetta ripartizione triadica:

  • la libertà in quanto uomo, afferma il filosofo, può venire riassunta tramite questa formula: «nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo […], ma ognuno deve poter cercare la sua felicità per la via che gli appare buona, purché non leda l’altrui libertà di tendere ad un analogo fine, libertà che possa accordarsi con la libertà di ognuno […].»;
  • l’eguaglianza come suddito, invece, risponde ad una lettura di questo tipo: «ogni membro del corpo comune ha verso ogni altro diritti coattivi, dei quali solo il capo di tale corpo comune è escluso[…]; capo il quale, soltanto, ha il potere di costringere senza essere sottoposto a sua volta a leggi coattive.» Ogni suddito è dunque, in quanto tale, sottoposto a leggi; fa eccezione il Capo dello Stato, perché altrimenti anch’egli sarebbe un suddito. La eguaglianza assoluta – in quanto sudditi – coesiste con la diseguaglianza – più o meno estesa – in termini di beni – sia fisici che spirituali – posseduti e anche di diritti – qualora, ad esempio, un individuo ne potesse disporre di maggiori rispetto ad un altro cittadino, a causa di varie situazioni giuridiche -. Ma il restare eguali in quanto sudditi significa che «nessuno può costringere alcun altro se non per mezzo della legge pubblica (e del suo esecutore, il Capo dello Stato)» e, al contempo, che «nessuno può perdere questa facoltà di costringere (e dunque avere un diritto verso altri) se non a causa di un suo crimine». Siamo ben lontani da ogni visione puramente egualitaria – in termini prettamente sociali -: «ogni suo membro deve poter raggiungere dal punto di vista del ceto ogni grado (che possa spettare a un suddito), nel corpo comune, al quale il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna lo possono condurre; e gli altri sudditi non possono essergli d’intralcio con una prerogativa ereditaria (come privilegiati ad un certo ceto), al fine di tenere sottomessi in eterno lui e la sua discendenza.»
  • l’indipendenza in quanto cittadino viene tradotta da Kant in questo modo: «Anche in fatto di legislazione, tutti coloro che sotto leggi pubbliche già esistenti sono liberi e eguali non sono tuttavia, in ciò che riguarda il diritto, da considerare come eguali nel dare queste leggi.» In sintesi: non tutti possono dotarsi del diritto di promulgare le leggi pubbliche – tale funzione spetta, ovviamente ai legislatori -, ma tutti sono tenuti all’osservanza delle stesse ed a beneficiare della medesima forma di protezione redarguita loro dalle medesime. Ogni forma di diritto, sostiene Kant, dipende – è regolata – dalle leggi. Ma la stessa legge pubblica coattiva altro non è che la manifestazione – intesa come atto giuridico – di una volontà pubblica dalla quale proviene ogni diritto; essa, quindi, non può e non deve arrecare ingiustizia ad alcun membro della società. Questo perché, tale volontà pubblica è quella dell’intero popolo, all’interno del quale ciascun membro detiene libertà, eguaglianza ed indipendenza – in quanto, come abbiamo appena visto, uomo, suddito e cittadino -, e si trova in perpetuo rapporto con i tre stadi del diritto pubblico – da quello delle “genti” fino a quello cosmopolitico -. Questo è il «contratto originario», ovvero nato dalla “volontà generale riunita del popolo”.

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