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Le comunicazioni di disturbo possono avere come conseguenza (principale) la delegittimazione dell’intera rappresentazione, ovvero possono rivelare al pubblico quanto dietro la stessa vada celandosi. Col verificarsi di una tale situazione, la messa in scena degli attori rischia di venire smascherata ed assieme ad essa i reali intenti dell’interazione medesima possono venire manifestati. In riferimento a ciò, Goffman menziona tre precise dinamiche cui si può ricorrere per evitare che si verifichi quanto appena menzionato:
- tutta una serie di veri e propri «strumenti difensivi», tramite i quali gli attori tentano di salvaguardare la rappresentazione;
- varie tipologie di «strumenti protettivi», verso cui può ricorrere il pubblico al fine di assistere gli attori nella “missione di salvataggio” di quanto rappresentato;
- strumenti che gli attori stessi rendono “accessibili” al pubblico e ai soggetti terzi, affinché dai medesimi possano, quanto prima, venire assistiti.
Per quanto concerne il primo aspetto, Goffman fa riferimento a tutta una serie di strategie tramite le quali, da una parte, gli attori tentano di salvaguardare la rappresentazione mentre, dall’altra, contemporaneamente, cercano di “disaffezionarsi” dal pubblico o, ad ogni modo, provano a non lasciarsi troppo condizionare dallo stesso. Un esempio, estremamente semplice e d’immediata comprensione, può essere quello dei genitori che desiderano che taluni discorsi non vengano uditi dai propri figli se non prima del raggiungimento di un certo grado di maturità e responsabilità, proprio per evitare che i medesimi li rendano noti a soggetti terzi. Goffman sottolinea come vada trattandosi di un qualcosa di ben orchestrato e tale da non minare l’immagine morale-affettiva che gli attori rivolgono nei confronti del proprio pubblico – tornando all’esempio di cui sopra, i genitori – ovviamente! – continueranno ad essere “genitori” agli occhi dei propri figli ed è per questo che saranno in grado di porre in essere ogni sorta d’inganno e di sentirsi, allo stesso tempo, al riparo dal rimorso e dall’imbarazzo per quanto escogitato -.
Per quanto, invece, riguarda le altre due dinamiche, Goffman utilizza il termine «tatto». Il sociologo evidenzia come sia proprio questo elemento a determinare il tipo di rapporto e di complicità che va creandosi tra gli attori ed il pubblico. Quest’ultimo, infatti, dal canto suo, può adottare tutta una serie di atteggiamenti e/o accorgimenti in grado di permettergli di coadiuvare ed assistere gli attori nella messa in opera della rappresentazione. Pensiamo, ad esempio, a quando, durante una conversazione, ci accorgiamo che certe persone si siano appena pentite di quanto affermato… molto spesso, infatti, proprio per evitare il sorgere di fraintendimenti, siamo soliti rispondere con espressioni del tipo non ho sentito o pensavo ad altro o cosa hai detto?, e via discorrendo. Può anche verificarsi il caso in cui una tale e volontaria “ritirata” dalla scena da parte del pubblico venga colta dagli attori, i quali, non volendo diffidare della stessa, possono sentirsi maggiormente legittimati “rincarando la dose”, magari aggiungendo ulteriori particolari, al fine di manifestare più credibilità a quanto esternato in precedenza dinanzi agli alter ego.
All’interno di questo rapporto, l’equilibrio, comunque, deve sempre essere salvaguardato. Da una parte, gli attori hanno il compito di prestare attenzione ai suggerimenti palesati dal pubblico, perché gli stessi possono (spesso) stare ad indicare come la rappresentazione stia diventando inaccettabile. Da qui si misura la bravura e la scaltrezza nel correggere e modificare la medesima. Dall’altra parte, qualora gli attori siano chiamati a distorcere la rappresentazione, tale distorsione deve avvenire entro certi limiti di “decenza” ed “accettabilità”, altrimenti per il pubblico potrebbe risultare impossibile esprimere anche il più elementare giudizio di benevolenza.
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