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La percezione, sostiene Crane, si sviluppa attorno al contrasto tra due idee. La prima verte sull’immediatezza dell’esperienza visiva, ovvero l’idea che all’interno (e per mezzo) di suddetta esperienza, in quanto percipienti, ciascuno di noi sia immediatamente consapevole del Mondo sensibile e materiale. La seconda idea, invece, viene generalmente indicata con il termine di “principio fenomenico”. La logica che sta alla base di questo principio può essere esposta – a grandi linee – nel modo seguente: “esperire “A”, significa ammettere che esista un qualche “A” che viene esperito”. Facciamo un esempio per semplificare tutta quanta l’argomentazione: se sostengo di stare osservando un oggetto colorato – qualunque sia il colore preso in esame -, allora devo ammettere che nel Mondo esista un qualcosa avente quello stesso colore. Riassumendo il tutto, dunque:
- la prima idea sostiene che quando si percepisce visivamente una cosa materiale, essa stessa venga percepita direttamente e immediatamente, e non per mezzo di qualcos’altro;
- la seconda idea, dal canto suo, afferma che quando si percepisce visivamente una cosa materiale, di essa stessa ne siano inevitabilmente percepite le proprietà.
Queste due idee entrano in conflitto in seno al concetto – visivo/percettivo – di “allucinazione”. L’allucinazione tende a dimostrare che alcun oggetto sensibile venga colto direttamente e/o immediatamente, data la possibilità che lo stesso possa essere (anche) del tutto inesistente, in realtà. Facciamo un altro esempio.
Ipotizziamo di stare osservando un fiore azzurro. O meglio: ipotizziamo di credere di stare osservando un fiore azzurro. Siamo cioè vittime di un’allucinazione. L’allucinazione stessa risulta essere indistinguibile dalla percezione “autentica” del fiore – ovvero dalla percezione che avremmo qualora il fiore esistesse per davvero -. La percezione, quindi, non dipende dall’esistenza del fiore. Il percipiente che cade in un’allucinazione non è che non stia percependo. Tutt’altro. La questione, al contrario, verte sulla consapevolezza di un oggetto non fisico. Se l’attività percettiva è indistinguibile tra quando è “vera” e quando è, invece, “illusoria”, allora l’oggetto della percezione lato sensu – il nostro fiore azzurro – non sarà mai un oggetto fisico. E la medesima conclusione deve essere generalizzata ai dati sensori stessi.
A fianco di queste considerazioni, possiamo menzionare anche il “principio della percezione autentica”. Quest’ultimo afferma che il vincolo della percezione sia l’esistenza dell’oggetto percepito ed il suo manifestare determinate proprietà e caratteristiche. Una esperienza autentica non è un’esperienza veridica. Non a priori, almeno. Percepire autenticamente un oggetto non implica il non sbagliarsi sull’individuazione di alcune sue proprietà, per esempio. Una percezione è veridica, allora, quando l’oggetto possiede per davvero le proprietà che pare possedere durante l’atto percettivo. Il principio fenomenico e quello dell’autenticità, quindi, concorrono in parallelo verso una meta comune. Il primo afferma che se percepiamo “A”, allora “A” esiste; il secondo che la percezione di “A”, se autentica, implica l’esistenza di “A”. Quindi entrambi hanno l’interesse ad evidenziare come l’esperienza non sia altro che una relazione tra percipiente e percepito.
Come abbiamo già visto, però, per Crane l’esperienza non è una relazione ma uno stato intenzionale costituito da un contenuto intenzionale (atteggiamento proposizionale). Qualora anche fosse formato da contenuti più prettamente mentali e qualitativi – i qualia -, la struttura portante dell’intenzionalismo – soggetto/modo/contenuto – perdurerebbe.
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