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Prevedo quanti lettori saranno sorpresi nel vedermi seguire tutta la prima età del mio allievo senza parlargli di religione. A quindici anni non sapeva se aveva un’anima, e forse a diciotto non è ancora tempo che lo impari; infatti, se lo impara prima di quel che occorra, corre il rischio di non saperlo mai.
La premessa rousseauiana è particolarmente consona e conforme a quanto trattato fino a questo momento: niente deve essere imposto e/o “forzatamente anticipato” all’interno del percorso pedagogico di formazione del fanciullo. In questo consiste l’ordine e la “sensibilità” della morale naturale. Rousseau sostiene come «la parola spirito non ha alcun significato per chi non ha filosofato», sottolineando come un “uso” prematuro di un simile concetto da parte di una mente non ancora pronta e non profondamente acculturata possa «promuovere concezioni inadeguate e antropomorfiche dello spirito e della divinità».
Secondo Rousseau le sensazioni sono collocate entro l’essere umano e sono ciò che permettono al medesimo di avere coscienza del proprio corpo. Le loro cause, invece, sono esterne ed estranee all’individuo, il quale non può né originarle né annullarle: «concepisco dunque chiaramente che la sensazione che è in me, e la sua causa o il suo oggetto che sono fuori di me, non sono la stessa cosa». Il passaggio dall’interno all’esterno e l’intersoggettività stessa traggono forza da questa argomentazione: «così, non soltanto io esisto, ma esistono degli altri esseri, cioè gli oggetti delle mie sensazioni». La comparazione con Berkeley è inevitabile. Secondo il filosofo inglese, infatti, ogni idea per esistere deve venire percepita – ovvero, deve essere assimilabile ai sensi -, il che implica il dover riflettere molto sia sul ruolo dell’immaginazione umana sia sull’inesistenza di un qualcosa chiamato “materia”. Rousseau afferma, invece, che «tutto quello che sento fuori di me e che agisce sui miei sensi, io lo chiamo materia; e tutte le porzioni di materia che concepisco riunite in esseri individuali, le chiamo corpi», limitandosi a sostenere come le sensazioni, che non possono essere volutamente prodotte dall’uomo, abbiano una causa esterna al corpo; causa esterna (e presunta) a cui viene dato il nome di “oggetto”. Il problema, quindi, stando al pensiero del libertino, non è tanto metafisico – legato cioè alle leggi di natura berkelyane e al perpetuo legame tra Dio e Creato, indispensabile per la diffusione delle idee nelle menti dei percipienti – quanto, piuttosto, “semantico”.
La materia, secondo Rousseau, è passiva. Profondamente passiva e inerte, dato che le «prime cause del movimento non sono affatto nella materia; essa riceve il movimento e lo comunica, ma non lo produce». È necessario risalire ad una volontà, dunque, dato che «non vi sono affatto delle vere azioni senza volontà». Si tratta di quello che il filosofo chiama «primo articolo di fede», ovvero la consapevolezza e necessarietà dell’esistenza di una Volontà in grado di imprimere il movimento all’intero Universo:
Come una volontà possa muovere la materia non è certo cosa facile a concepirsi, tanto nell’universo che nell’essere umano […]. Però quel materialismo che assegna il movimento alla materia è ancora più assurdo: o si tratta di un movimento caotico dal quale può uscire solo il caos stesso, o si tratta di un movimento determinato che suppone una causa che lo determini.
Il «secondo articolo di fede» trova giustificazione in riferimento ad una corrispondenza e complementarietà logica come la seguente:
la materia, muovendosi, mi illumina circa l’esistenza di una Volontà
⇓⇑
la materia, muovendosi secondo determinate leggi, mi illumina circa l’esistenza di una intelligenza
L’intelligenza di cui parla Rousseau è la capacità di agire, confrontare, scegliere… ovvero tutte quelle azioni in grado di rendere un soggetto attivo e pensante. È nel voler rispondere alla domanda che lui stesso si pone – «Dove lo vedete esistere?», in riferimento al sopracitato soggetto -, che il filosofo finisce con l’illuminarci circa la sua posizione nei riguardi di Dio e la risoluzione del problema della teodicea – il che ci porta nuovamente a riflettere circa il rapporto tra stato naturale e stato sociale dell’uomo -:
Il mondo è dunque governato da una volontà potente e saggia. Le varie difficoltà metafisiche che possono sorgere passano in seconda linea di fronte a questa verità luminosa. Questo essere che vuole e che può […] io lo chiamo Dio. Se poi mi volgo a considerare qual posto occupo io, uomo, nell’ordine delle cose, sono colpito dalla mia eccellenza. […] Ma se poi considero la società umana come tale, il quadro muta totalmente, non vi vedo che confusione e disordine, e nasce il problema di spiegare il male sulla terra.
La sopracitata teodicea viene ulteriormente spiegata e risolta nell’esposizione del «terzo articolo di fede» di Rousseau. L’uomo è libero di scegliere e giudicare, ovvero di fare o il bene o il male. Tutto questo è possibile proprio perché l’uomo ha una coscienza, nel senso cioè che è «animato da una sostanza immateriale». Se il male esiste, dunque, la colpa non è ascrivibile a Dio, esattamente come l’esistenza della disuguaglianza non può essere imputata all’Altissimo, ma soltanto all’errato progresso umano. Questa riflessione morale deve trovare il proprio punto di equilibrio con «l’amor di sé», ovvero con quel precetto della morale naturale secondo il quale ciascuno debba sì pensare alla propria salvaguardia ma senza che la stessa comporti danno a quella altrui – altro motivo a causa del quale la “dispersione” del selvaggio viene enfatizzata nelle pagine del Discorso -.
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