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Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo. Egli sforza un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare i frutti di un altro; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; sconvolge tutto, sfigura tutto, ama la deformità, i mostri; non vuol nulla come l’ha fatto la natura, nemmeno l’uomo; bisogna che lo addestri per sé, come una cavallo da maneggio, che lo configuri a suo modo, come un albero del suo giardino.
Rousseau afferma come «tutto ciò che non abbiamo alla nascita e di cui abbiamo bisogno da grandi, ci è dato dall’educazione.» Una educazione che, secondo quanto sostenuto dall’illuminista, proviene dalla natura, dagli uomini e dalle cose. Nello specifico:
- «lo sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi è l’educazione della natura»;
- «l’uso che ci si insegna a farne è l’educazione degli uomini»;
- «l’acquisto di una nostra propria esperienza sugli oggetti che ci colpiscono è l’educazione delle cose».
Mentre l’educazione della natura non dipende dagli uomini – quella delle cose solo in minima parte -, l’educazione degli uomini è «la sola di cui noi si sia veramente padroni».
Rousseau afferma che «l’educazione non è certamente che un’abitudine», sostenendo come vi siano persone in grado di smarrire la propria educazione esattamente come altre si dimostrino in grado di conservarla per sempre. Ora risulta essere alquanto importante ragionare attorno al concetto di “abitudine”. All’interno della trattazione rousseauiana circa l’educazione, infatti, questo termine può assumere due distinti significati. Non è un errore sostenere che Rousseau sia “nemico” delle abitudini, a tal punto da affermare che il bambino dovrebbe «non contrarne nessuna», anche perché l’attrazione suscitata da un’abitudine fa leva, solo e soltanto, sulla pigrizia del ragazzo. Da questo punto di vista, la valutazione negativa che il filosofo indirizza nei riguardi delle abitudini viene giustificata dal fatto che di esse Rousseau critica la capacità di “meccanizzare” il comportamento, privando lo stesso di “elasticità” in seno all’apprendimento e all’acculturazione. Fatto sta, comunque, che lo stesso illuminista parla molto spesso di abitudine – e non solo in senso dannoso – all’interno dell’Emilio: in senso lato, infatti, l’abitudine è anche tutto ciò che si impara come “distinto” da ciò che è connaturato. Ad ogni modo, l’abitudine “negativamente intesa” altera la natura – colta nel senso di legge naturale -: «Prima di questa alterazione, esse sono ciò che io chiamo in noi la natura.» In sintesi: Rousseau sostiene che le tre fondamentali «disposizioni primitive» tramite le quali, durante il corso della vita, ciascun individuo si pone nei riguardi delle oggettualità – in ordine (cronologico): “senso” (inteso come l’istinto primitivo con il quale ci avviciniamo ad una determinata cosa), “utilità” (fase nella quale entra in gioco il calcolo dei vantaggi nel disporre o meno di un particolare oggetto) e “ragione” (grazie alla quale si originano forme di valutazione più complesse, anche di natura morale) -, possano venire mistificate dal possesso di determinate abitudini, in quanto «costrette dalle nostre abitudini, esse vengono più o meno alterate dalle nostre opinioni». Rousseau indica anche delle precise fasce temporali in riferimento a suddette “disposizioni”. Per la precisione:
- il senso predomina come facoltà intellettiva fino al compimento del dodicesimo anno;
- l’utilità veicola il modo di porsi nei riguardi delle oggettualità, nell’intervallo che va dal dodicesimo anno fino al quindicesimo;
- la ragione, infine, si afferma solo successivamente.
Spiegato il problema relativo alla presenza delle abitudini, un altro punto rilevante, che viene quasi subito affrontato all’interno dell’Emilio – e che, come vedremo, caratterizzerà la tipologia di pedagogia teorizzata al suo interno -, verte sulla distinzione tra «educazione pubblica e comune» e «educazione particolare e domestica». Appellandoci alle parole di Rousseau, «l’istituzione pubblica non esiste più, e non può più esistere, perché dove non c’è patria, non si possono più avere cittadini». La pedagogia formulata da Rousseau è, dunque, individuale (non collettiva) e domestica (non pubblica) – «Non considero come pubbliche istituzioni educative quegli stabilimenti ridicoli chiamati collegi.» -; per definirne l’iter ed il vantaggio – il vantaggio cioè di “educare fuori dalla società un individuo che della società stessa farà poi il bene” -, è opportuno conoscere prima l’uomo naturale dato che «bisognerebbe aver osservate le sue inclinazioni, visti i suoi progressi, seguito il suo cammino».
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