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Vi sono due importanti sviluppi in seno al concetto di “categoria” sviluppato da Aristotele. Il primo si basa sull’espressione – predicazione – «ciò che è si dice in molti modi»; secondo il filosofo, cose che appartengono a categorie diverse sono ed esistono in modo differente, ma senza che ciò impedisca a questi stessi enti di possedere connessioni e relazioni tra di loro. Più che altro si tratta di comprendere come la predicazione «ciò che è» non sia una specie di “super genere” in grado di racchiudere tutti gli altri. Facciamo un esempio: alle espressioni Socrate è coraggioso, Socrate è un uomo e Socrate è figlio di Sofronisco corrispondono le esistenze del coraggio di Socrate, di Socrate stesso e della sua condizione di figlio. Sono cose diverse e non esiste un senso (di appartenenza) generico, tramite il quale possiamo affermare l’esistenza di ciascuno degli enti di cui sopra. In ogni caso, le sostanze esistono in un modo primario, così come ogni altra entità in un modo secondario e/o derivato, a seconda della relazione posseduta con la sostanza stessa. Motivo per cui, pur essendo distinte, sono interconnesse.
Per quanto concerne il secondo sviluppo, l’argomentazione si complica notevolmente. Innanzitutto, Aristotele sostiene come le parti di una sostanza – ad esempio, una mano – siano esse stesse sostanze. In questo modo “risolve” un problema concettuale di non poco conto che si verifica quando abbiamo una proprietà che si riferisce non ad una sostanza tutta intera ma ad una sua parte – pensiamo ad un gatto tutto nero ma con una zampa bianca -. Il filosofo giunge fino ad affermare che il corpo e l’anima di un uomo siano sostanze come l’uomo intero stesso. Dopodiché, sostiene come le sostanze prime vadano costituendosi di una componente “formale” e di una più marcatamente “materiale”.
Altra argomentazione rilevante in seno alla trattazione delle categorie investe il tema del “cambiamento”. Sono due i cambiamenti trattati da Aristotele:
- in primis, può capitare che un soggetto (persistente) acquisisca una certa caratteristica o struttura di cui fosse mancante in precedenza. Si tratta di cogliere come una certa sostanza possa perdere una caratteristica “non sostanziale” per acquisirne un’altra al suo posto – ad esempio, un uomo che da ignorante diviene istruito -;
- in secundis, il filosofo tratta il tema della “generazione” di una sostanza. Anche in questo caso, il cambiamento è giustificato dall’acquisizione di una certa forma – si pensi ad una statua che, per l’appunto, “viene ad essere” da un blocco di marmo – ma, in questo caso, la “forma acquisita” non sarà mai una qualunque bensì, solo e soltanto, quella in virtù della quale la nuova sostanza che si genera è ciò che è – finalismo aristotelico -.
All’interno della Metafisica, in riferimento sempre al tema della sostanza, Aristotele espone due premesse molto chiare e profonde. Prima di tutto, afferma come vi siano quattro “candidati” a ricoprire il ruolo di sostanza. Essi sono in ordine: l’universale, l’essenza, il genere e il soggetto. Dopodiché, modifica il punto di vista dell’intera indagine epistemologica. Dall’enunciato X è una sostanza il filosofo giunge a quello X è la sostanza di Y. In breve, mantenendo sempre l’attenzione rivolta verso le sostanze prime, Aristotele s’interroga in virtù di che cosa una sostanza sia tale, ovvero da cosa dipenda mai la sua vera e propria “sostanzialità”. Una specie di “sostanza della sostanza prima”, il che significa che se X è una sostanza allora vi deve essere un qualcosa che sia la sostanza di X. Il problema filosofico, dunque, verte sull’esistenza o meno di una differenza concettuale e teoretica circa l’essere una sostanza o l’essere la sostanza di qualcos’altro. La soluzione più plausibile dell’intera argomentazione aristotelica potrebbe essere la seguente: appurato che X sia una sostanza, allora esiste qualcosa di cui X è sostanza. In breve, quindi: ogni sostanza è sostanza di qualcosa – e viceversa -. Cosa è questo qualcosa? Lo possiamo considerare come la particolarità sensibile “bruta”, ovvero ciò di cui, immediatamente, l’esperienza ne coglie la manifestazione, prima ancora dell’indagine filosofica. Ritornando all’esempio di Socrate di poco sopra, si tratta quindi di cogliere Socrate nella sua essenza tanto descrivibile quanto esistenziale. Il verbo essere quindi – Socrate è – deve qui venire inteso in entrambe le sue accezioni: descrittive (in quanto copula) ed esistenziali (in quanto predicato).
I quattro “candidati” al titolo di sostanza possono allora essere organizzati nel modo seguente: la sostanza di un qualcosa è prima di tutto la sua essenza, altrimenti un universale che essa esemplifica oppure un genere sotto il quale la stessa cade o, in ultima analisi, il suo soggetto. Partiamo proprio da quest’ultimo.
Il soggetto aristotelico può essere o la forma o la materia o la commistione di entrambi. Ma è soprattutto sulla materia che si concentra la maggior parte delle riflessioni del filosofo. Il ragionamento di Aristotele è abbastanza semplice: se il soggetto fosse l’unico requisito della sostanza, allora la materia sarebbe la principale candidata a ricoprire quel ruolo. La materia è la base del soggetto, quel qualcosa che resta quando lo stesso viene privato di tutti suoi attributi. È di per sé indeterminata ma grazie agli attributi, ai quali fa da soggetto, riesce a determinarsi. Ma la materia non può essere sostanza a titolo principale perché la stessa, oltre ad essere soggetto, necessità di due altri requisti. Intanto la sostanza deve essere “separata” e/o “separabile”, ovvero autonoma. Può la materia essere separata dalla forma? Aristotele sostiene che è possibile ma solo concettualmente; in riferimento alle particolarità sensibili, infatti, la forma non è separata dalla materia nel senso di poter esistere indipendentemente dal tipo di materia di cui la particolarità vada formandosi. Più che altro è una autonomia concettuale, per l’appunto: è possibile cogliere e studiare la forma in modo separato. In secondo luogo, la sostanza resta un qualcosa di determinato, definito, ed individualistico. Ricapitolando: se per sostanza prendiamo in considerazione un soggetto dotato di attributi, allora la materia è particolarmente esaustiva; se, invece, pensiamo al suo essere separata, definita e determinata, allora la forma e il composto materia/forma assolvono meglio tale compito. Ma la forma, ad ogni modo, resta sempre apriorica nei riguardi sia della materia che del composto materia/forma. Questa “anteriorità” è di tipo causale – si pensi a quanto detto in tema di “potenza/atto” -: il composto è tale in virtù della forma e non viceversa. Quindi la forma è la migliore candidata a ricoprire il ruolo di essenza della sostanza. L’eidos è, dunque, la sostanza prima, ovvero ciò che evidenzia l’essenza sostanziale. Attenzione a non confondere la sostanza prima – la forma – con le sostanza universali – ad esempio, “il cavallo” – e con le sostanze particolari – “questo cavallo” – che esemplificano gli oggetti universali.
Aristotele, quindi, parte dalla trattazione del soggetto e giunge alla forma, la quale coincide con l’essenza. Restano però ancora altri due “candidati”: universale e genere. In realtà, il filosofo menziona solo l’universale, finendo con il ritenere il genere un caso particolare dello stesso; le argomentazioni circa la sostanzialità dell’universale valgono quindi anche per il genere:
In primo luogo, è sostanza di ciascuna cosa quella che è esclusiva di ciascuna cosa, quella che non appartiene ad altro; invece l’universale è comune. Inoltre è detto sostanza ciò che non si dice di un soggetto; invece l’universale si dice sempre di un qualche soggetto.
La sostanza di un qualcosa deve quindi appartenere esclusivamente a quel qualcosa e questo, dunque, non può essere ascritto all’universale.
La sostanza è da identificarsi primariamente con la forma. E la forma stessa è individuale dato che la sostanza è (anche) un “questo qualcosa” e non è un universale. Il problema però è che, all’interno del libro VII della Metafisica, Aristotele sembra parlare di “forma universale”, ovvero di una forma identica per tutti gli appartenenti ad una stessa specie:
L’uomo e il cavallo e le cose che in questo modo si applicano ai singolari, ma sono universali, non sono sostanza ma una sorta di composto costituito da questa formula definitoria e questa materia considerata come universale. Singolare è invece Socrate, composto dalla materia ultima, e così per gli altri casi.
Questi “universali” di cui parla il filosofo sono le sostanze seconde. Qui però sembra che Aristotele consideri gli stessi (l’uomo, il cavallo, ecc.) come composti di materia e forma, esattamente come i particolari (questo uomo, questo cavallo, ecc.) che li esemplificano. Se l’espressione «considerata come universale» si riferisce alla sola materia, allora la forma è in relazione tanto con la materia concreta e particolare delle stesse particolarità (questo uomo) quanto con la materia astratta e universale degli universali stessi (l’uomo, ovvero la specie “uomo”). La forma, quindi, è anche universale. Come può la forma, essenza della sostanzialità di un qualcosa di individuale e non universale, essere anche universale? La soluzione è la seguente: possiamo accettare l’idea secondo cui tutti gli appartenenti ad una stessa specie possiedano forme distinte ma qualitativamente identiche. Tant’è che Aristotele sostiene, ad esempio, come l’anima di tutti gli uomini sia strutturalmente identica – dove l’anima è la forma dell’uomo in quanto è l’essenza della sua stessa sostanzialità –.
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