GLI ANALITICI POSTERIORI E LA CONOSCENZA ARISTOTELICA.


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Passando agli Analitici posteriori troviamo la definizione aristotelica di “conoscenza”:

Riteniamo di conoscere ciascuna cosa in senso proprio […] quando riteniamo di capire che la ragione, in virtù della quale la cosa è, è la ragione di quella cosa, e che ciò non può essere altrimenti.

Posso, dunque, dire di conoscere X se e soltanto se conosco la ragione di X – ragione in virtù della quale X è X – e se riesco a comprendere perché X «non può essere altrimenti». In breve:

  • è necessario che la conoscenza e l’indagine epistemologica vengano espresse e raggiunte in forma proposizionale, ovvero nei termini del sapere che le cose stanno in un certo modo – che altro non è che la finalità dell’enunciato aristotelico in sé -;
  • solo una verità “solida” – cioè non contingente et similia – può essere oggetto di vera conoscenza.

Il termine usato da Aristotele è quello di epistème e può essere tradotto con il significato di “conoscenza scientifica”, dato che per giungere alla comprensione di questa forma di conoscenza è fondamentale che la stessa sia necessaria, oltre al dover comprendere tanto l’essenza quanto la causa della particolarità presa in esame. L’epistème è uno stato mentale, ovvero è quella situazione nella quale il percipiente si trova ogni volta che riesce a produrre delle dimostrazioni finalizzate alla comprensione di un qualcosa. Le dimostrazioni, secondo Aristotele, sono sillogismi le cui premesse sono archaì, ossia dei principi apodittici, veri ed inconfutabili. Delle proposizioni aliene da qualsivoglia forma di dubbio e/o incertezza. Il filosofo distingue due tipologie di principio:

  • “posizione”: è un principio inerente ad un ambito specifico della realtà – quindi ad una scienza chiara e definita -. Come “posizione” Aristotele menziona la hypòthesis – “ipotesi” -, ovvero l’assunzione dell’esistenza (o non esistenza) di un qualcosa, e quello che viene chiamato horismòs, che è una vera e propria definizione;
  • “assioma”: è un principio generale, cioè comune ad ogni tipologia di scienza.

Aristotele sostiene che ogni scienza debba avviare le proprie indagini partendo da principi suoi propri, cioè non affidandosi né a quelli troppo generali né a quelli inerenti il campo d’indagine di altre scienze. In questo consiste l’ulteriore classificazione e divisione dei principi stessi in “propri” e “comuni”. Vi è da aggiungere che, all’interno del pensiero aristotelico, i principi comuni sono tali solo per analogia, nel senso cioè che possono venire ascritti ad ogni singola scienza la quale, però, assume gli stessi in un modo specifico e “congeniale” agli intenti ed obiettivi epistemologici. Aristotele, quindi, per l’ennesima volta, respinge l’idea platonica circa l’esistenza di una singola scienza “unificata” in grado di discernere e spiegare l’assolutezza della realtà. Piuttosto, il filosofo parla di subordinazione e sovraordinazione tra le scienze: una scienza può usare i principi di un’altra se il suo genere è “più specifico” di quello dell’altra – per esempio, l’ottica sfrutta quei principi geometrici specificatamente inerenti al suo genere di studio ed analisi -.

I principi non sono dimostrabili da altri principi – primi o fondamentali che siano -. Quindi sono indimostrabili. Se indimostrabili, allora restano inconoscibili. Come risolvere l’impasse? È fondamentale, in primis, comprendere come sia possibile giungere alla conoscenza dei principi e, in secundis, riuscire ad individuare quale sia lo stato mentale posseduto dal percipiente nel mentre che gli stessi vengono conosciuti. Partiamo dalla prima questione.

Aristotele respinge l’idea platonica della reminiscenza e quindi della conoscenza innata – ed ignara – dei principi nella mente dell’uomo ma, al contempo, ritiene che la comprensione degli stessi richieda la necessaria esistenza di un qualcosa di pre-esistente.  Aristotele usa il termine aìsthesis. Essa è la percezione, ovvero la capacità posseduta da tutti gli esseri viventi di “procedere oltre”. Il filosofo elabora un vero e proprio “iter” di accrescimento cognitivo:

percezione → memoria → esperienza → conoscenza universale

Dunque dalle percezioni si genera la memoria, come diciamo, e dalla frequente ripetizione della memoria della stessa cosa si genera l’esperienza; giacché una pluralità numerica di memorie costituisce un’unica esperienza. Dall’esperienza, o piuttosto da tutto quanto l’universale che si arresta nell’anima, l’uno oltre i molti, ciò che è presente come uno e lo stesso in tutti quelli, si genera il principio dell’arte e della scienza.

A questo si aggiunge il fatto che i principi vengono colti secondo induzione:

[…] è evidente che per noi è necessario acquisire cognizione delle cose prime per induzione; infatti è così la percezione ingenera in noi l’universale.

Per quanto concerne il secondo quesito, Aristotele sfrutta il termine nous – qui da intendersi nel suo significato di “intellezione” – e lo contrappone a quello della conoscenza scientifica, l’epistème. Già in Platone il nuos equivale ad uno stato mentale pari o superiore a quello dell’epistème. Il nous, quindi, è lo stato nel quale si trova colui che completa un procedimento cognitivo induttivo, tale da permettergli la comprensione di un principio. Mentre la dimostrazione – ovvero la conoscenza scientifica – trae legittimazione da uno stato mentale di epistème, l’induzione prende vita solo e soltanto dal nous.

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