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Tra percezione e pensiero (nous) trova il proprio ruolo di “cerniera” l’immaginazione, ovvero la phantasìa che abbiamo già avuto modo di menzionare più volte in ambito epistemologico. Abbiamo visto come l’immagine derivi dall’atto percettivo e come persista anche quando la percezione stessa si esaurisce. In pratica, la percezione diviene una rappresentazione mentale che permette alle impressioni sensoriali di “essere chiamate alla memoria” (rammemorazione). La phantasìa, a differenza dell’atto percettivo, è suscettibile di errore – dato che può fondarsi su immagini illusorie -, ma resta indispensabile all’esercizio del pensiero. In breve: senza immaginazione non può esistere atto psichico di alcun tipo. La phantasìa trasforma quanto è stato percepito in “forme sensibili”; da quest’ultime è possibile poi ricavare le “forme intellegibili” che sono implicite in quelle sensibili – «[…] le forme intellegibili si trovano nelle forme sensibili» -. Facciamo un esempio molto semplice: dalla rappresentazione dell’immagine sensibile di un cavallo è possibile giungere alla forma universale del cavallo – e, quindi, alla sua definizione (essenza) –.
Il pensiero, sostiene Aristotele, è come una tavoletta di cera non ancora incisa ma che si palesa essere in grado di accogliere la scrittura. Significa che il nous sia de facto un qualcosa che attiene sicuramente alle forme intellegibili, pur restando un’attività meramente passiva. È una vera e propria attività potenziale passiva, che mai si trova in atto prima di pensare le forme intellegibili stesse. Nel momento in cui tale potenzialità si realizza, ovvero quando l’atto di pensare prende vita, il pensiero si identifica con il pensato, nel senso che finisce proprio con l’identificarsi con la forma pensata. Come le forme sensibili attivano la potenzialità percettiva, quelle intellegibili, dunque, permettono al pensiero di avviarsi. Ma cosa determina il passaggio dalla “potenzialità di pensare” al “divenire pensante”? O, per essere più precisi: “il passaggio per il nous dalla potenza all’atto da cosa è determinato?”. Qui l’argomentazione aristotelica si complica in modo particolare.
Aristotele parla di un nous diverso da quello recettivo/passivo. Una specie di intelletto in grado di svolgere la funzione di causa efficiente. Mentre il nous passivo finisce con l’identificarsi con quanto pensato nel momento in cui diviene atto pensante – ovvero, nel momento in cui si pensa -, questo nous attivo si mostra in grado di «produrre tutte le cose», cioè di rendere pensate le cose pensabili e pensante il pensiero recettivo/passivo. Aristotele lo indica anche con il termine di hèxis, da intendere nel significato di “capacità”. Questo intelletto, stando alle parole del filosofo, è «nell’anima» ma, al contempo, risulta essere «separabile dal corpo, impassibile e non mescolato, per essenza in atto» e, quindi, «immortale ed eterno». Il problema circa quanto sostenuto sull’anima sorge inevitabilmente. La soluzione filosofica a questa potenziale idiosincrasia potrebbe essere la seguente.
Potremmo considerare questo intelletto attivo come l’immenso bagaglio di conoscenza che l’intero genere umano continua ad accumulare e a lasciare sotto forma di lascito generazionale. Esso è immortale perché sopravvive alla morte del singolo ed è tanto in atto quanto in potenza poiché anticipa e mette in movimento quel processo di apprendimento di cui ogni singolo essere umano diviene titolare nel momento in cui passa dalla “potenzialità della conoscenza” alla conoscenza strincto sensu. Non è (forse) un caso che lo stesso Aristotele abbia detto che il nous «proviene da fuori e solo esso è divino, perché l’attività corporea non ha nulla in comune con la sua attività», affermando così come il pensiero – inteso nella sua veste di patrimonio umano della conoscenza – preesista tanto l’esistenza quanto l’attività del singolo.
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