L’ESISTENZIALISMO DI SCHOPENHAUER: PARTE PRIMA.


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La Volontà, quindi, si palesa attraverso l’atto generativo. Da quel punto essa si rispecchia nella vita di ogni singolo individuo. Ma di quale esistenza (terrena) sta parlando Schopenhauer?

Secondo il filosofo, la vita che conduciamo è, nella stragrande maggioranza dei casi, rivolta al perseguimento di interessi personali ed egoistici, quali forme labili e fugaci di appagamenti e gratificazioni. Ciascuna di queste conquiste è rivolta al desiderio di proteggere, conservare e far perdurare al massimo l’esistenza stessa e gli illusori momenti di felicità e serenità che vanno costituendola:

La vita si presenta come un continuo inganno, in grande come in piccolo. Se ha promesso, non manterrà, salvo che per mostrare quanto poco desiderabile fosse la cosa desiderata; così c’inganna dunque ora la speranza ora la cosa sperata. Se ha dato, era per prendere. La magia della lontananza ci fa vedere paradisi, che svaniscono come illusioni ottiche una volta che ci siamo fatti menare per il naso.

Il discernimento di quanto sopra viene reso possibile all’uomo perché quest’ultimo, da un punto di vista intellettivo, ragiona, sempre e comunque, in riferimento ad una precisa dinamica esistenziale: il tempo. Il tempo evidenzia, in modo fin troppo palese e chiaro, la caducità di ogni evento, particolarità, scopo, interesse, e via discorrendo. Questa “nullità” esistenziale è, dunque, la «sola cosa oggettiva del tempo, ossia ciò che gli corrisponde nell’essenza in sé delle cose». La vita stessa è compresa in termini temporali, ove la morte ne è la definitiva conclusione.

Schopenhauer pone poi in rapporto la “negatività” che si origina dai desideri e dagli appagamenti, con la “positività” del dolore. La riflessione, a dire il vero, è di facile comprensione. Secondo il filosofo, i bisogni – in senso lato e generale -, nel momento in cui fuoriescono dalla nostra portata, generano sofferenza. Facciamo un semplice esempio: se ho sete e bevo, soddisfo questa mia necessità ma, nuovamente, ogni nuova mancanza di acqua genererà in me sofferenza. Il dolore, al contrario, una volta cessato, non produce alcun rimpianto o sentimento di mancanza. Questa riflessione implica altre due interessanti congetture.

In primis, i momenti felici, sereni e lieti vengono rimembrati ed apprezzati solo nel momento in cui vengono a mancare. Pensiamo alla giovinezza… essa diviene grande fonte di rimpianto una volta che si è caduti vittima della vecchiaia. In secundis, il possesso, ovvero il continuo adoperarsi per gli appagamenti ed i soddisfacimenti individuali ed egoistici, non genera mai felicità.

Il dolore, come afferma Schopenhauer, è il «positivo, di cui si fa sentire la presenza». Si rifletta, ad esempio, su come le ore trascorse  in compagnia ed in serenità scivolino via tanto più velocemente rispetto ai ben noti lunghi ed interminabili minuti passati, ad esempio, in una sala di attesa. Se, dunque, il tempo si palesa molto di più quando ci annoiamo rispetto a quando ci divertiamo, la nostra stessa esistenza è tanto più felice quando meno la “sentiamo”. Forse, quindi, sarebbe meglio non averla affatto (?):

Prima di asserire con tanta sicurezza che la vita è un bene desiderabile o di cui bisogna esser grati, si confronti una volta con calma la somma delle gioie possibili, che un uomo può godere nella sua vita, con la somma dei dolori possibili, che lo possono colpire nella sua vita. Credo che non sarà difficile trarne il bilancio.

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