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C’è solo un errore innato, ed è quello di credere che noi esistiamo per essere felici. Esso è in noi innato perché coincide con la nostra stessa esistenza, e tutto il nostro essere altro non è che la sua parafrasi, e anzi il nostro corpo è il suo monogramma: se altro non siamo che volontà di vivere, la successiva soddisfazione di ogni nostro volere è poi ciò che si pensa col concetto di felicità. Finché persistiamo in questo errore innato, venendo in esso addirittura rafforzati da dogmi ottimistici, il mondo ci appare pieno di contraddizioni. Giacché ad ogni passo, nel grande come nel piccolo, dobbiamo sperimentare che il mondo e la vita non sono fatti per nulla in modo da procurare una esistenza felice.
Abbiamo già avuto modo di cogliere alcune riflessioni esistenzialiste – e, oserei dire, “leopardiane” -, all’interno dei vari argomenti trattati sino ad ora e concernenti la filosofia di Schopenhauer. Il filosofo, infatti, sostiene come il desiderio, meramente individuale ed egoistico, altro non sia che una bieca illusione ed un malvagio inganno, in quanto esso, oltre ad essere meramente fugace e labile, è inevitabilmente destinato alla dissoluzione – in termini propriamente di “felicità” -, una volta raggiunto e consumato.
Le riflessioni, che già nel precedente articolo avevamo rivolto al misticismo e al cristianesimo, circa l’importanza della redenzione come forma di isolamento dai beni terreni e l’agnizione della vita mortale come profondamente intrisa di dolore e sofferenza, ben si sposano con la visione dell’esistenza di Schopenhauer.
La vita è afflizione. Punto. La Natura, difatti, è totalmente indifferente ai mali che vengono continuamente rivolti alle specie viventi. Nei riguardi di esse, l’unica preoccupazione è la “salvaguardia immortale”, rappresentata, freddamente e cinicamente, dal continuo flusso di nuove nascite che compensano tutte le morti ed i decessi che, via via, nel corso del tempo, vanno verificandosi. Nel momento stesso in cui si comprende che il dolore e la sofferenza sono i veri tratti ontologici di ciascuna terrena esistenza, ecco che il fine della Vita medesima si realizza, dato che viene chiaramente percepito in sé.
Le stesse virtù, infatti, come abbiamo già visto, possono essere “lacunose”. Se facciamo eccezione per alcuni soggetti straordinari – come i “santi” o gli asceti, ad esempio -, la salvezza è proprio rappresentata dall’assunzione di suddetta convinzione: comprendere che niente di ciò che esiste sia in grado di permettere all’esistenza di essere ascritta alla dimensione pura della felicità. Ne sono una prova vivente gli stessi uomini, i quali, non solo vivono cercando di soddisfare i propri desideri – restando così ignari di come tutto ciò non potrà mai essere per loro fonte di serenità – ma, addirittura, nel corso della vita, subordinano alcuni fini ad altri, arrivando a promuovere delle vere e proprie “scale di preferenza” in seno agli scopi prefissati:
Ma se, inversamente, l’avidità sopravvive alla capacità di godere e ci si rammarica ora di non aver colto nella vita certi piaceri particolari, invece di vedere la vacuità e nullità di essi tutti; e se poi al posto degli oggetti dei piaceri, ai quali il senso è morto, subentra ciò che tutti questi oggetti rappresenta astrattamente, il denaro, il quale suscita ora le stesse violente passioni che erano una volta risvegliate, più scusabilmente, dagli oggetti di effettivo godimento; e se dunque adesso, spentisi i sensi, si vuole un oggetto inanimato ma indistruttibile con brama ugualmente indistruttibile; o anche se, allo stesso modo, l’esistenza nell’opinione altrui subentra al posto dell’esistenza e dell’azione nel mondo reale, accendendo le stesse passioni – allora la volontà, nell’avarizia o nell’ambizione, si è sublimata e spiritualizzata, ma si è con ciò buttata anche nell’ultima fortezza, in cui non l’assedia più se non la morte. Il fine dell’esistenza è mancato.
Il dolore, quindi, è dannatamente salvifico perché rammenta la vera essenza della Vita ed il vero fine della Esistenza. Altra ragione per la quale, la morte, vera ed unica forma di liberazione dalla sofferenza, non deve essere temuta ma, altresì, felicemente accolta:
La vita si presenta allora come un processo di purificazione, di cui il dolore è il ranno purificatore. Compiuto che sia, il processo si lascia dietro come scorta l’immortalità e la cattiveria ad esso precedenti […].
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