L’ETICA ARISTOTELICA: PARTE SECONDA.


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Riprendiamo la riflessione concernente il concetto aristotelico di felicità. Innanzitutto la felicità implica e si identifica con uno stato di autosufficienza che, ad ogni modo, non deve ridursi ad un isolamento individuale. Niente solipsismo, dunque: la felicità si estende tanto alla famiglia quanto al contesto sociale di riferimento. Del resto, come abbiamo già visto, l’uomo è un animale politico, stando al pensiero aristotelico. Uno stato di felicità necessita di beni materiali, di doti naturali ed anche di fortuna; in pratica, non può esercitare attività felice colui il quale si trova in situazioni di gravi difficoltà economiche e/o di deplorevole estrazione sociale e/o che sia limitato da impedimenti quali deformità fisiche o sciagure. Inoltre la felicità non è da tradursi come un qualcosa di momentaneo, bensì deve tale stato ricoprire l’intero corso della vita. Infine, chi è incapace e/o impossibilitato a deliberare razionalmente sulla propria attività, non può ritenersi felice – è il caso dei bambini e degli schiavi, ad esempio -. Segue poi tutta una profonda argomentazione circa le parti costituenti l’anima dell’uomo.

Aristotele parla di due strati dell’anima. Uno irrazionale e l’altro razionale. Il primo è quello «vegetativo» – cui corrispondono funzioni prettamente vitali che non ricoprono alcun rilievo etico – e quello chiamato «desiderante». Il problema è cercare di comprendere il legame tra il desiderio e la ragione. Aristotele, infatti, afferma come la parte desiderante partecipi alla ragione dell’uomo ma in maniera diversa da soggetto a soggetto. Negli uomini virtuosi e temperanti, infatti, il desiderio “ascolta ed obbedisce” alla capacità raziocinante dell’individuo, mentre in coloro che sono schiavi delle proprie passioni, il desiderio osteggia e si contrappone al giudizio razionale. Il desiderio non deve però essere visto come un qualcosa dal quale è fondamentale liberarsi: la condotta, anche quella virtuosa, dipende infatti (anche) dal suddetto. È opportuno, dunque, ragionare in termini di equilibrio tra la parte irrazionale e quella razionale dell’anima umana. Quest’ultima si costituisce di uno strato «epistemico», relativo cioè alla conoscenza teoretica, e di uno strato «calcolatore» che ha per oggetto tutto ciò che è variabile, contingente e suscettibile di trasformazione.

A ciascuno di questi livelli dell’anima, Aristotele ascrive una o più virtù – che evidenziano l’eccellenza performativa del livello stesso -. Le virtù dell’anima desiderante sono chiamate «etiche», mentre quelle della parte razionale della suddetta «dianoetiche» – diànoia significa “pensiero” -. Tra le virtù dianoetiche, quella che eccelle nello strato epistemico è la «sapienza», mentre per quanto concerne la parte calcolatrice abbiamo come massima dote di riferimento la «intelligenza pratica»Aristotele dedicherà gran parte dei suoi scritti alla definizione delle «virtù etiche», dato che investono i problemi morali riguardanti le condotte dell’uomo nelle vesti di “animale politico”. Il filosofo parla di coraggio, di generosità, di temperanza et similia. Ma, dato che l’etica resta pur sempre una scienza pratica, è importante capire non tanto cosa sia la virtù (felicità) in sé quanto, piuttosto, cosa debba esser fatto per poterla raggiungere.

Aristotele afferma come la virtù non possa venire appresa in modo “ordinario” – leggendo libri, ad esempio -. Inoltre, nessuno nasce virtuoso. La strada che permette di giungere alla virtù è una sola: compiere sempre, ripetutamente nel tempo, fin da quando si è bambini, azioni virtuose. Per far questo, è necessario seguire gli insegnamenti del proprio padre, rispettare le leggi della polis ed emulare le gesta dei cittadini più esemplari. Sono le norme da rispettare per sviluppare un personale condizionamento morale sui propri desideri. Ad ogni modo, l’uomo diviene virtuoso nel momento in cui tali norme e prescrizioni vengono interiorizzate, ovvero nel momento in cui il cittadino esercita quelle azioni di propria scelta. Attraverso cioè un’adesione razionale. Sulla consapevolezza che è giusto comportarsi in tale maniera perché questa è la maniera giusta di comportarsi in società. Vi è, quindi, un brillante passaggio filosofico che vede l’abitudine divenire nel tempo, tramite la ripetitività delle attitudini, una disposizione stabile nei riguardi del perseguimento della virtuosità. Se le buone consuetudini mancheranno, il comportamento si consoliderà in riferimento ai vizi. Inoltre, una volta formatosi, il carattere morale è difficilmente suscettibile di mutamento: è raro che un virtuoso diventi un malvagio, proprio come è improbabile pensare che avvenga l’incontrario. Occorre un’ulteriore precisazione.

Il comportamento virtuoso permette all’uomo di governare gli impulsi che regolano le passioni da cui si originano i desideri. Questo non significa che gli stessi debbano venire sradicati dalla psiche umana. La virtù ha il compito di controllarli e monitorarli, con l’obiettivo di renderli “consoni” ai valori fondanti il contesto socio-politico nel quale si muove il cittadino – ricordiamo sempre che l’uomo è un animale politico nel pensiero aristotelico -. A tal riguardo, il termine coniato da Aristotele è quello di «medietà». Si tratta della capacità che ciascuno deve avere di “mediare” tra gli opposti; nessun eccesso, tanto nella virtù quanto nel vizio, è socialmente accettabile, quindi, il cittadino deve, di volta in volta, comprendere quale tipo di comportamento risulti essere il più virtuosamente idoneo e meritevole da esercitare. Facciamo un esempio molto banale: il coraggio è sicuramente una virtù. Ma perché? Perché media tra i suoi estremi, ovvero tra una sfacciata spavalderia che può condurre il soldato a morte certa e la più ignobile delle codardie.

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