L’IMPASSE DI ROUSSEAU: L’UOMO PSICOLOGICO.


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Arrivati a questo punto della trattazione, occorre fare una precisazione. Una precisazione particolarmente importante per comprendere la profondità del pensiero rousseauiano. L’analisi circa lo stato naturale e la condizione dei selvaggi porta con sé alcune tematiche e constatazioni che, come abbiamo già avuto modo di vedere, risultano essere tanto innovative quanto brillanti. Il “percorso a ritroso”, finalizzato al recupero della morale naturale – e delle sue due virtù fondamentali, la pietà e la fratellanza -, assolve il compito di permettere all’individuo di recuperare una pura comprensione del proprio io e di avanzare la doverosa richiesta di una sua stessa piena rivendicazione. L’auto-realizzazione di un individuo, dunque, non può prescindere da una totale agnizione dell’essenza dello stesso. Questo implica, da una parte, il fatto che ciascun soggetto debba intraprendere un vero e proprio percorso introspettivo di comunicazione con la propria coscienza, al fine di attingere nuovamente a quanto di nobile e positivo andava caratterizzando la condizione umana all’interno dello stato naturale. Dall’altra parte, è impossibile non notare come il tutto finisca con il tradursi nelle vesti di una vera e propria necessità: quella di “ricostituire” de facto il cittadino strincto sensu. Sia il Discorso che l’Emilio risultano essere due opere particolarmente esaustive in tal senso.

Vi è, ad ogni modo, una impasse nel pensiero socio-politico di Rousseau che non può non essere scorta o trattata. Abbiamo, infatti, affermato come sia l’interazione con i propri simili che la nascita del linguaggio siano da considerare i due elementi di “maggior pericolo” all’interno del processo di civilizzazione che conduce il selvaggio nelle vesti di cittadino. Il passaggio da una vita nomade ad una sempre più sedentaria, così come il consolidarsi e svilupparsi di continui nuclei familiari et similia, fanno sì che i rapporti interrelazionali non siano più né solamente occasionali né esclusivamente finalizzati al raggiungimento di uno scopo il cui perseguimento implica (poi subito) il relativo scioglimento del legame. Rousseau, infatti, nel cercare di comprendere come, da un punto di vista sia qualitativo che quantitativo, i rapporti tra gli individui vadano inesorabilmente modificandosi nel passaggio allo stato sociale, intuisce come gli stessi finiscano con il fondarsi su di un sistema valoriale dai forti connotati morali e politici. Si tratta, più o meno, di ribadire – almeno in parte – l’osservazione stando alla quale le differenze prettamente naturali, una volta “trapiantate” nel contesto sociale, diventano fonte di disuguaglianza e iniquità. Il fatto, sostiene il filosofo ginevrino, è che, mentre il selvaggio “vive in sé stesso” e non si cura di osservare il proprio simile, il cittadino vive perennemente “fuori di sé”, giudicando sempre chi gli è prossimo e finendo con il non riuscire a liberarsi dal riconoscimento altrui. Questo è un passaggio particolarmente importante e che, in parte, riconduce ad alcune interessanti osservazioni formulate da Montaigne – nello specifico circa il tema della “maschera” e della “vanità umana” –.

L’interazione con il prossimo, di per sé, obbliga il soggetto a “muoversi verso l’esterno”. Il legame – che può assumere diverse vesti (di dipendenza, di reciprocità, di sottomissione, ecc.) – veicola l’individuo a cercare il riconoscimento altrui. Questo significa che il cittadino, a differenza del selvaggio, è portato ad essere assoggettato all’opinione dell’altro e, di conseguenza, al fine di essere riconosciuto o apprezzato o stimato et similia, viene spronato a imitare colui/coloro verso il quale/i quali tende lo sguardo. L’interazione, quindi, “si rende confronto” tra gli osservatori e da questo confronto, fondato su una precisa scala valoriale, vengono emesse sentenze tali da promuovere discriminazioni, sottomissioni e via discorrendo. Ad esempio: mentre tra due selvaggi il colore della pelle non assume alcun significato, l’osservazione indirizzata su questo aspetto può, all’interno di una società, dare vita a patologie sociali, proprio perché è l’interazione stessa a mostrarsi mistificata a causa dei valori che la legittimano e giustificano. Fondamentale, quindi, è “estraniarsi” da simili logiche. Rivendicare l’autenticità del proprio io, al fine di sentirsi pienamente affermato e realizzato, implica l’allontanarsi da ogni pratica viziata da passioni come la stima, la vanità e via discorrendo – qui è possibile notare l’enorme distanza che separa Rousseau sia da Mandeville che da Smith -.

Come può, però, una totale rivendicazione del proprio io integrarsi con una concezione comunitaria dell’esistenza? Esattamente! Questo è il problema insito nella riflessione rousseauiana! Una impasse che, quindi, non permette di “leggere” con assoluta linearità il passaggio al Contratto Sociale di quanto visto sia nel Discorso che nell’Emilio. Ogni individuo, del resto, è inevitabilmente portato a sacrificare parte delle proprie passioni o rivendicazioni al fine di garantire, per sé medesimo, un perfetto e pacifico inserimento nella comunità e, al contempo, per garantire alla stessa la possibilità di potersi fondare su di una solida struttura interna. Una riflessione di questo tipo è possibile coglierla molto bene in relazione a quanto Rousseau afferma circa la donna ed il ruolo che le è ascritto – la donna, infatti, è impossibilitata a esternare la propria vera essenza fuori dalle mura domestiche ed è necessario che sia così perché tale è quanto ci si aspetta da lei, visto il compito assegnatole dalla Natura (cfr. La nuova Eloisa) -.

Rousseau sembra quindi presagire il fatto che dinanzi ad un contesto sociale fortemente permeato da patologie sociali quali la disuguaglianza e l’ingiustizia, l’individuo, consapevole dell’impossibilità sia di rivendicare il suo vero io che di apportare dei validi correttivi al contesto nel quale vive, possa (anche) optare per un vero e proprio allontanamento. Qui il concetto di “estraniazione” viene, dunque, interpretato come un atto volontario di emancipazione, posto in essere al  fine di condurre una esistenza assolutamente auto-referenziale – cfr. Montaigne -. Come vedremo, un lieve “correttivo” verrà rappresentato dalla “religione civile” teorizzata nel Contratto.

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