LA SOSTANZA BERKELYANA.


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Abbiamo visto come l’immaterialismo berkelyano si fondi sul concepire ogni singola idea quasi fosse un “segno” – premonitore – di un’altra idea e sul ritenere l’esperienza lato sensu alla stregua di un linguaggio. Il concetto di “sostanza” viene riletto. Così come viene respinta ogni logica meccanicistica e/o determinata da leggi di causalità. La definizione cartesiana di materia – res extensa – è del tutto fallace agli occhi dell’empirista inglese:

Tutte le cose che esistono, esistono solo nella mente, vale a dire esse sono meramente speculative. […] Ciò che vediamo, sentiamo, udiamo o in qualsiasi modo concepiamo o comprendiamo, rimane tanto sicuro e reale come sempre. C’è una rerum natura e la distinzione tra realtà e chimere conserva la sua piena forza. […] Io non argomento contro l’esistenza di alcuna cosa che possiamo apprendere o per mezzo dei sensi o della riflessione. Non faccio la minima questione sul fatto che le cose che vedo con i miei occhi e che tocco con le mie mani esistano, che esistano veramente. La sola cosa di cui nego l’esistenza è ciò che i filosofi chiamano Materia o sostanza corporea.

L’immaterialismo berkelyano, infatti, si fonda su tre presupposti ben precisi:

  1. non esiste la Materia ma anche qualora esistesse non ci sarebbe data da conoscere in quanto abbiamo conoscenza solo di ciò che ci presentano i sensi o che possiamo comprendere con la mente. E né i sensi (vista, tatto et similia) né la mente (spirito) ci conducono alla sostanza materiale – ma solo al paradigma esse est percipi -;

  2. non esiste niente di esterno alla mente che sia reale a meno che non venga percepito, ma dato che non esiste alcuna idea di materia la stesa non può venire recepita e, dunque, “godere” di un’esistenza reale. Dobbiamo, infatti, sempre tenere a mente come il contenuto di ogni esperienza resti prettamente mentale (solo e soltanto mentale) – idealismo berkelyano –;

  3. inoltre le relazioni – i legami associativi abituali – non riguardano le oggettualità ma le idee. Esistesse anche una Materia essa sarebbe comunque passiva e non potrebbe avere relazioni – esse sono date dallo Spirito che diffonde nelle menti le idee assimilabili ai sensi e permette la comprensione delle ordinate “leggi della Natura” -.

Non ha senso, dunque, la distinzione tra qualità primarie e secondarie: la sostanza deve essere assunta «nel suo senso comune come una combinazione di qualità sensibili» e non come una congettura filosofica di un qualcosa che ontologicamente esiste al di fuori della mente umana. Ma dobbiamo chiarire un attimo il concetto di “mentale”.

Una prima critica contro Berkeley potrebbe riguardare la premessa (errata) stando alla quale con il termine “mentale” s’intenda indicare il fatto che le idee, in quanto tali, non abbiano realtà. Siano cioè irreali e, quindi, equiparabili a mere fantasie o contemplazioni. In realtà, secondo l’empirista, le idee assimilabili ai sensi dipendono dallo Spirito che fa in modo, diffondendole nelle menti dei percipienti, che ogni esperienza vissuta risulti essere sempre uno stato mentale – esse est percipi -. In pratica si tratta di evidenziare un vero e proprio circuito dialettico: il percepire continuo di Dio diffonde (letteralmente) idee nelle menti degli uomini. E questa “divina diffusione” non è casuale: le idee sono tutte in relazione le une con le altre, di modo che le “leggi della Natura” possano divenire, tramite l’esperienza, i campi a cui attingere umana conoscenza. Questo significa che la percezione di Dio è pressoché continua perché ogni esperienza vissuta altro non è che un’idea assimilabile ai sensi, impressa nella mente dell’uomo.

Una seconda critica, invece, potrebbe essere quella di ritenere il cogito berkelyano come solipsistico. Nel senso di ritenere ogni mente come chiusa in sé stessa e nelle proprie esperienze mentali. Ma le percezioni sono tutte pubbliche. Non sono questioni private. L’esse est percipi non tratta gli stati interiori e le rappresentazioni mentali, ma, bensì, le idee (e le relazioni tra le stesse), le quali per essere reali devono essere percepite. Anche perché è “pubblicamente” che Dio si presta alla “percezione della Natura”. Ogni spirito (mente), quindi, opera sulle idee assimilabili ai suoi sensi, e di conseguenza produce effetti – gli spiriti, infatti, sono “comprensibili” per gli effetti posti in essere -, svolge azioni, promuove attività e via discorrendo.

Secondo Berkeley l’errore epistemologico in cui gli uomini sono incappati è stato quello di ritenere come realmente esistenti, al di fuori delle proprie menti, le idee e gli oggetti della percezione di cui non fossero i diretti artefici – nel senso proprio di “volontà” -. I filosofi hanno commesso, in seguito, un altro errore: hanno ritenuto che fuori dalla mente esistessero degli oggetti che non necessitassero di venire percepiti al fine di venire considerati reali. Questi stessi oggetti avrebbero poi finito con l’imprimere nella mente del percipiente le idee di sé medesimi. Sono tre i motivi di questa duplice impasse, secondo il filosofo inglese:

  1. questi individui non hanno saputo risolvere una duplice contraddizione ontologica: non possono esistere oggetti, simili alle idee, esistenti al di fuori della mente, e non possono venire assegnate ad essi alcuna forma di volontà e/o di potere;
  2. lo Spirito – Dio – che origina le idee nella mente non è distinto o determinato come lo sono le idee sensibili per grandezza, movimento, aspetto, ecc;
  3. le attività dello Spirito sono regolari e uniformi: Berkeley sostiene che quando assistiamo ad un evento straordinario, tale da interrompere il “corretto” corso degli eventi, siamo spesso spronati a gridare al miracolo o, comunque, a riconoscere l’esistenza di un “ente superiore”. In realtà, la grandezza del Creatore è da riscontrarsi nella “normalità” delle «leggi della Natura» – ovvero nelle associazioni abituali delle idee sensibili -: «Ma quando vediamo le cose procedere nel corso ordinario, queste non promuovono in noi alcuna riflessione; il loro ordine e la loro concatenazione, sebbene sia un argomento a favore della grande saggezza, potenza e bontà del loro Creatore, è tanto costante e familiare per noi che non li pensiamo l’effetto immediato di uno spirito libero [… ].»

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