L’ETICA ARISTOTELICA: PARTE QUARTA.


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Ogni azione è “intenzionata” al raggiungimento di un fine, ovvero viene intenzionalmente posta in essere per il perseguimento di uno scopo – teleologia -. L’azione morale non fa eccezione. L’atto di volizione che produce l’attuazione dell’agire si origina dalla parte desiderante dell’anima e, quindi, dal suo strato irrazionale. Questo significa che l’azione morale non è dettata dalla ragione ma, bensì, dalla virtù morale stessa. Non è tramite la razionalità che si pongono in essere azioni virtuose; per ottenere dei simili risultati è necessario essere virtuosi. I fini e gli scopi dell’agire morale, quindi, non sono ascrivibili alla “deliberazione” e alla “progettazione” della ragione, quanto, invece, ad un atto di “volizione desiderativa”. Ecco perché Aristotele, ad esempio, in tema di comportamento virtuoso, preme molto sull’educazione e sull’emulazione delle gesta dei cittadini più esemplari. Questo, però, significa anche che il fine, tanto nell’ambiente familiare quanto in quello socio-politico – la polis -, si mostri essere sempre “buono” agli occhi di Aristotele, in quanto oggetto e scopo dell’educazione medesima.

Abbiamo detto che l’azione morale prende vita da un atto di volizione desiderativa e non da una scelta razionale ma, al contempo, sappiamo che l’anima desiderante si “dispone” a seguire i consigli della ragione. In breve, la posizione aristotelica è molto simile a quella che sarà poi ripresa da Hume: la ragione non stabilisce i fini dell’agire ma, ad ogni modo, funge da filtro, in quanto è in grado di individuarli e definirli, permettendo, ad esempio, la comprensione della vera felicità, per il cui perseguimento il desiderio farà sì che verranno poste in essere quelle determinate azioni. L’intelletto, dunque, non è passivamente schiavo delle passioni. Resta il problema della praticabilità o meno dello scopo per il quale l’uomo agisce.

Aristotele, infatti, parla di fini praticabili ed impraticabili. La distinzione è alquanto immediata e di facile intuizione, a dire il vero. Io posso desiderare di tornare indietro nel tempo, ma non esiste alcuna forma di agire che possa permettermi di soddisfare un simile sogno. Per quanto concerne, invece, i fini praticabili, è necessario affidarsi ad una virtù dianoetica dell’anima. Si tratta della già menzionata “intelligenza pratica”. In questo caso, data la praticabilità del fine, il desiderio dal quale si origina la volontà ad agire prende il nome di “desiderio razionale”. Quando un agire morale tende verso il perseguimento di uno scopo praticabile, diviene fondamentale valutare la virtuosità stessa dell’azione – cioè comprendere se quel modo di comportarsi sia moralmente retto o sbagliato -. La riflessione, a tal riguardo, si mostra essere veramente profonda in Aristotele:

Vi è una facoltà che chiamano “abilità”. Essa è tale da renderci capaci di compiere con successo le azioni che portano allo scopo prefisso. Se lo scopo è bello, questa è una capacità lodevole, ma se lo scopo è ignobile essa è “furberia”: per questo diciamo abili sia i saggi che i furbi. La saggezza non è questa facoltà ma non si dà senza di essa. […] È possibile in realtà che lo scopo sia retto, ma che si faccia un errore nei passi che vi conducono; ed è possibile che lo scopo sia errato, ma che siano invece corretti i passi che in essi si concludono, oppure né l’uno né gli altri.

Come estremi nell’agir morale, quindi, potremmo ritrovarci a fare i conti con un uomo virtuoso ma totalmente incapace o con un individuo meschino ma abilissimo a perseguire il proprio intento. Non solo. Si potrebbero verificare situazioni in cui i fini preposti siano lodevoli ma l’inadeguatezza del carattere dell’agente – “mancanza di autocontrollo” – faccia sì che gli stessi non possano venire soddisfatti. Dobbiamo anche chiederci, quindi, se mancanze o fallacie nell’intelligenza “pratica” possano minare o meno l’esecuzione dell’agire necessario per il soddisfacimento dei propri scopi. Per evitare tutte queste fratture e asimmetrie, Aristotele si affida al cosiddetto «sillogismo pratico»:

la virtù predispone il fine

la premessa maggiore lo contiene

la premessa minore consiste nell’intelligenza pratica che stabilisce i mezzi per perseguirlo

l’azione viene eseguita

In tal modo, virtù ed intelligenza non collidono.

Concludiamo, rispondendo alla domanda iniziale Che cos’è la felicità?. Ebbene, nonostante, l’uomo sia un animale politico, non è nella grandezza della politica che la vita umana si realizza in modo compiuto. Bensì, in quella teoretica. In breve: per divenire immortali dobbiamo trattare ciò che è immortale e, quindi, il bene massimo che la Natura ci ha preposto è una vita dedita alla perenne ricerca della conoscenza. Una vita dedicata al “perfezionamento del pensiero” è una vita divina perché divina è la conoscenza che, di per sé, è immortale. La vita teoretica è, inoltre, autosufficiente perché non dipende dal mutare delle circostanze e si giova della pace dello studio, oltre ad essere pura nella continuità delle sue azioni.

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